Tochtli è un bambino sveglio per la sua età. Tochtli è triste.
Vive rinchiuso in un palazzo lussuoso che però non sembra
neanche un palazzo, perché è troppo sporco e trasandato.
Non può uscire di casa. Non ha una madre, solo uno stravagante
istitutore e un padre: Yolcaut, re del narcotraffico messicano.
Per ingannare il tempo, e per avere una vita veramente sua,
colleziona di tutto: parole difficili, cappelli, animali in via
di estinzione, tra cui il mitico ippopotamo nano della Liberia.
E conta: le ore che passano, la gente che muore.
Quasi tutta, per mano di suo padre e dei suoi aiutanti.
Uscito in Spagna nel 2010, accolto da recensioni entusiastiche,
Il bambino che collezionava parole è diventato un caso
internazionale. In Inghilterra è stato considerato uno degli esordi
piú importanti degli ultimi anni ed è stato selezionato
per il prestigioso Guardian Prize.
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«In mezzo al boom della cosiddetta
narcoletteratura, Villalobos è riuscito
a evitare ogni facile moralismo
ricorrendo alla voce di un bambino,
strana e crudele nella sua innocenza».
«El País»
«Una lingua impassibile, innocente,
guasta, opaca, devastata: è questa
la grande invenzione di Juan Pablo
Villalobos nello spazio minuscolo e comico
del suo romanzo. Un'invenzione che
potrebbe rappresentare la via per una
narrativa adeguata a quanto accade oggi.
E non solo in Sudamerica».
Adam Thirlwell